È un testo accattivante e avvincente che, per la prima volta, scopre un Campanella inedito e misterioso, su cui pochi studiosi si sono soffermati, presi da interessi di ricerca ormai consolidati e dati per scontati, come il filone politico, filosofico o letterario.
Il segreto di Campanella di Claudio Stillitano può definirsi senza dubbio una pubblicazione originale, che attrae facilmente l’attenzione del lettore e che pone tanti interrogativi sulla figura leggendaria ed enigmatica del frate domenicano, che, nel 1599, ebbe il coraggio di ideare una congiura contro il governo spagnolo e che trascorse quasi 32 anni (27 ininterrottamente) in carcere per difendere le sue idee rivoluzionarie, magiche (esoteriche), i suoi libri e il suo immenso sapere, che sconfinava in ogni campo dello scibile umano (il filosofo stilese scrisse oltre 110 testi, per un totale di 50.000 pagine!).
Il volume – pubblicato da Arti Grafiche Edizioni (Ardore Marina (RC), Via Matteotti, 10 - telefono: 0964/629714) – raccoglie alcune leggende su Tommaso Campanella, nate intorno agli anni giovanili del filosofo e diffuse successivamente, agli inizi del 1800 e del secolo XX, ad opera probabilmente di alcuni stilesi aderenti alla loggia massonica “Colonna Enotria” e alla Sezione italiana del “Rito Scozzese - Capitolo dei Principi Rosacroce”, come fa intendere l’autore del libro, che, su tale argomento, sta approfondendo i suoi studi.
Tra le leggende pubblicate dal giornalista e scrittore – che è anche autore teatrale, insignito di prestigiosi riconoscimenti (Premio Casentino, Premio nazionale Giangurgolo) - meritano attenzione quella denominata La leggenda d’o Suli, d’o Sennu e de Sofia e La leggenda del dito mignolo.
La prima narra dell’apparizione, sul monte Consolino, di tre personaggi misteriosi che dicono di chiamarsi Sole, Senno e Sapienza, con evidenti richiami alla filosofia campanelliana, al Metafisico e ai tre principi collaterali (Pon, Sin e Mor) de La Città del Sole.
Nella leggenda si narra di un’erba rintracciata e mangiata dal filosofo nella sua adolescenza (da tale “cibo” sarebbe derivato il suo eccezionale ingegno) e della costruzione di una testa, plasmata dal frate con una specie rara vegetale.
La seconda leggenda (quella del dito mignolo) ripropone le accuse rivolte a Campanella già a partire dal primo processo del 1592, secondo le quali i poteri straordinari in suo possesso gli sarebbero derivati da uno spirito demoniaco racchiuso nell’unghia del mignolo.
Il mignolo, riferisce Stillitano, all’atto della morte del filosofo, avvenuta a Parigi il 21 maggio 1639, sarebbe stato “strappato” dal cadavere del domenicano e spedito misteriosamente, in una teca, a Stilo, dove nel 1812 il dignitario francese Aubin-Louis Millin fece di tutto per recuperarlo, assieme ad un dipinto di «celebre pennello» raffigurante il filosofo (forse una copia di quello attualmente custodito a Beauvais, presso il Museo Dipartimentale dell’Oise).
La “reliquia” del dito – secondo la tradizione orale e popolare stilese – fu custodita dagli aderenti ad alcune associazioni segrete (massoniche?), che diedero allo strano oggetto lo stesso significato conferitogli dai Templari (che, si dice, “adorassero” oltre ad un dito, una testa).
La prima leggenda, con quella de L’erba della sapienza, ripropone una tematica che è prettamente ermetica: quella della fabbricazione di una testa dotata di virtù speciali, che fu particolarmente avvertita nella seconda metà del Cinquecento, nel periodo in cui la diffusione delle dottrine di Paracelso prospettò la possibilità della generazione artificiale di esseri viventi.
Chiediamo a Claudio Stillitano cosa rappresenta per lui la testa barbuta e parlante presente nelle leggende da lui raccolte.
«Il simulacro – dice Stillitano – è da identificarsi con lo strano idolo venerato dai Templari, con quella sorta di testa di Giano barbuta, talvolta ritenuta parlante, forse in oro e argento. Tale figura enigmatica rappresentava, a parere dei Poveri Cavalieri di Cristo, il Redentore, “che fa fiorire gli alberi e maturare le messi”. Lo stesso potere viene attribuito al dio irlandese Dagda, che provvede al costante rinnovamento del cosmo e nel cui regno (l’aldilà) crescono tre alberi dai frutti perenni».
Ma il Baffimetto, Bafometto o Baphomet, come viene da lei chiamato, è esistito veramente o si tratta di pura invenzione?
«La storia del Bafometto è infinita. Sono molte le speculazioni e le ipotesi relative all’identità della testa misteriosa. Alcuni studiosi spiegano che il nome deriva dal termine arabo bahommerid, che significa moschea. Altri individuano, invece, nel termine un’altra parola araba, bahoumid, che significa vitello, con chiaro riferimento al culto del vitello d’oro dell’Antico Testamento. Altri sostengono ancora che Bafometto deriva dal greco e più precisamente dal termine baph (battesimo) e meteos (iniziazione o sapienza). C’è stato addirittura qualche scrittore che ha collegato il termine a Bapho, il porto cipriota dal quale per anni salparono i Templari con le loro navi. Altri studiosi hanno affermato che la parola ricorda il bufo, il rospo, uno degli animali più effigiati sugli stemmi dei Merovingi, un animale molto utilizzato in stregoneria (Campanella, nei primi anni della sua prigionia, si dedicò a forme di magia rischiose e persino demoniache). C’è addirittura chi ha scritto, leggendo la parola al contrario, che Baphomet è lo slogan dei signori del Tempio: Templum Omnium Hominum Pacis Abbas (Il tempio di tutti gli uomini è il padre della pace)».
Lei cosa pensa?
«Io credo che nei riti dei Poveri Cavalieri di Cristo, come nelle leggende da noi raccolte, la testa ha la stessa funzione, cioè quella dell’auspicio di una perfetta conoscenza e dell’annuncio di un percorso da seguire, pena il decadimento e lo smarrimento dei risultati conseguiti o da conseguire. In fondo, noi preferiamo considerare il termine Baphomet come una parola segreta decifrabile soltanto attraverso il codice Atbash. Questo codice deriva dal libro di Geremia, dalla Bibbia, dove si usa un semplicissimo codice monoalfabetico per cifrare la parola Babele: la prima lettera dell’alfabeto ebraico (Aleph) viene cifrata con l’ultima (Taw), la seconda (Beth) viene cifrata con la penultima (Shin) e cosi via. Da queste quattro lettere è derivato il nome Atbash (A con T, B con SH). Tale sistema alfabetico ci dice che la parola va tradotta con Sophia, la conoscenza, figura centrale per lo sviluppo dell’individuo e la sua rinascita spirituale, come centrale, in una delle leggende campanelliane, è la figura di Sofia che, assieme al Sole e al Senno, cerca di portare sulla strada della saggezza il ragazzo protagonista del racconto».
Questa interpretazione potrebbe essere accusata di troppa fantasia, visto che Campanella, nato nel 1568, quando i Templari erano già stati sciolti e perseguitati da alcuni secoli, non poteva aver conosciuto o praticato l’ideologia (eretica e dissacratoria) che era propria dei seguaci dell’Ordine del Tempio.
«In effetti Campanella non conobbe nessun templare, ma fu indirettamente influenzato (e indirizzò, a sua volta) dai seguaci di altri movimenti che si ricollegano alla setta segreta. Questi movimenti sono il Priorato di Sion e la Confraternita della Rosacroce, entrambi espressione diretta dei Templari, rimasti sempre nell’ombra e mai rivelatisi apertamente. Riguardo al primo movimento possiamo dire che il filosofo non condivise, almeno apertamente, gli intendimenti dell’Ordine di Sion, il cui scopo era (o è ancora) quello di tenere nascosti alcuni documenti e verità sulla “Chiesa di Giovanni” e sul cristianesimo. Anche se non va trascurato l’uso, in alcune sue opere, del cosiddetto “gesto di Giovanni”, il dito indice eretto e puntato, usato da Leonardo da Vinci (che appartenne, secondo alcuni documenti rinvenuti a Parigi negli anni Cinquanta del secolo scorso, al Priorato) in alcune sue opere, come l’ Ultima Cena e la Vergine delle rocce».
Lei però è convinto che il frate calabrese ispirò e sostenne la Confraternita della Rosacroce, il “Cenacolo di Tubinga”.
«Campanella ebbe un’enorme importanza sugli ideatori della Rosacroce (i cosiddetti Figli della Luce), che rimasero sempre sconosciuti e nell’ombra, anche se oggi possiamo identificarli in Johann Valentin Andreae, in Christoph Besold, Wilhelm Wense e Tobia Adami. Quest’ultimo, amico ed estimatore di Campanella, pubblicò in Germania alcune opere del filosofo e la Scelta d’alcune poesie filosofiche, che Adami dedicò, guarda caso, proprio a Wense, Besold e Andreae. Gli stessi manifesti rosacrociani (la Fama Fraternitatis e la Confessio Fraternitatis) mettono in evidenza alcune idee e convinzioni propugnate per lungo tempo da Tommaso Campanella. E’ il caso, dell’ ”amore” sviscerato per la natura, “per lo sacro santo sole, lampa del cielo, portatore delle cose a noi mortali”, natura considerata quasi come una divinità (fra Thommasso la chiamò “statua di Dio”), dell’ ansia e dell’impegno solerte e fattivo per il rinnovamento morale, politico e spirituale del genere umano e dell’esaltazione dei sapienti («Non il saper troppo, ma il poco senno degli assai ignoranti fa noi meschini e tutto il mondo tristo», scrive il frate ribelle). Le Nozze Chimiche, poi, attribuite esplicitamente a Johann Valentin Andreae (che pubblicò l’opera nel 1616), danno grande risalto al numero 7 e parlano di una Casa del Sole, con chiari riferimenti a La Città del Sole del filosofo stilese».
Vi è, quindi, un collegamento diretto con l’opera più nota del domenicano?
«Giovanni Valentino Andrea e gli altri rosacrociani furono sostenitori dell’alchimia spirituale, che non ha nulla a che vedere con la creazione dell’oro, che essi definivano “empio e maledetto”. Questa pratica culturale e filosofica, già intuita nel Rinascimento, caratterizzò, a nostro avviso, anche la vita e alcune opere di Campanella, che, come gli illuminati della Rosacroce, pensava (ma non lo dimostrò mai, per non aggravare la sua posizione già compromessa e sempre al vaglio dell’Inquisizione) che l’uomo, all’origine, fosse un essere impregnato di sostanza “divina”, che solo in seguito venne “intrappolato” in un corpo materiale e mortale, dove tuttavia poteva ancora riscontrarsi una scintilla del mondo primordiale. La meta dell’uomo, per i rosacrociani e per Campanella, doveva essere quella di recuperare tale dimensione, la strada che conduce alla “sacra estasi”, alla perfetta conoscenza, alla sapienza».
I passaggi da un girone all’altro ne La Città del Sole rappresentano dunque questo cammino, hanno un messaggio esoterico?
«E’ proprio cosi. Tutta l’opera è scritta secondo un linguaggio occulto e non ben manifesto. L’uso continuo di alcuni numeri ne è l’esempio. Il sette, usato spesso da Campanella ma anche dai Rosacroce, è un numero magico per eccellenza, in quanto il risultato della “composizione” di 3 (pluralità) e di 4 (totalità), numeri di importanza fondamentale nella tradizione esoterica. Cosi come il 4, che rappresenta un sistema chiuso, foriero di possibili sviluppi, come nell’alchimia, essendo la somma del 3, prima conclusione dello sviluppo dell’essere (che all’origine era uno), e dell’uno, inizio di ogni cosa».
Perché ha intitolato il suo libro Il segreto di Campanella?
«Perché il segreto si identifica con la vita enigmatica, misteriosa e indecifrabile del filosofo che, da giovane, aderì, tra l’altro, ad alcune accademie napoletane (le cosiddette “uova dell’angelo”), che erano delle vere e proprie associazioni segrete, messe fuori legge e condannate dalla cultura ufficiale e dal vicereame spagnolo».
Elia Fiorenza
Il segreto di Campanella di Claudio Stillitano può definirsi senza dubbio una pubblicazione originale, che attrae facilmente l’attenzione del lettore e che pone tanti interrogativi sulla figura leggendaria ed enigmatica del frate domenicano, che, nel 1599, ebbe il coraggio di ideare una congiura contro il governo spagnolo e che trascorse quasi 32 anni (27 ininterrottamente) in carcere per difendere le sue idee rivoluzionarie, magiche (esoteriche), i suoi libri e il suo immenso sapere, che sconfinava in ogni campo dello scibile umano (il filosofo stilese scrisse oltre 110 testi, per un totale di 50.000 pagine!).
Il volume – pubblicato da Arti Grafiche Edizioni (Ardore Marina (RC), Via Matteotti, 10 - telefono: 0964/629714) – raccoglie alcune leggende su Tommaso Campanella, nate intorno agli anni giovanili del filosofo e diffuse successivamente, agli inizi del 1800 e del secolo XX, ad opera probabilmente di alcuni stilesi aderenti alla loggia massonica “Colonna Enotria” e alla Sezione italiana del “Rito Scozzese - Capitolo dei Principi Rosacroce”, come fa intendere l’autore del libro, che, su tale argomento, sta approfondendo i suoi studi.
Tra le leggende pubblicate dal giornalista e scrittore – che è anche autore teatrale, insignito di prestigiosi riconoscimenti (Premio Casentino, Premio nazionale Giangurgolo) - meritano attenzione quella denominata La leggenda d’o Suli, d’o Sennu e de Sofia e La leggenda del dito mignolo.
La prima narra dell’apparizione, sul monte Consolino, di tre personaggi misteriosi che dicono di chiamarsi Sole, Senno e Sapienza, con evidenti richiami alla filosofia campanelliana, al Metafisico e ai tre principi collaterali (Pon, Sin e Mor) de La Città del Sole.
Nella leggenda si narra di un’erba rintracciata e mangiata dal filosofo nella sua adolescenza (da tale “cibo” sarebbe derivato il suo eccezionale ingegno) e della costruzione di una testa, plasmata dal frate con una specie rara vegetale.
La seconda leggenda (quella del dito mignolo) ripropone le accuse rivolte a Campanella già a partire dal primo processo del 1592, secondo le quali i poteri straordinari in suo possesso gli sarebbero derivati da uno spirito demoniaco racchiuso nell’unghia del mignolo.
Il mignolo, riferisce Stillitano, all’atto della morte del filosofo, avvenuta a Parigi il 21 maggio 1639, sarebbe stato “strappato” dal cadavere del domenicano e spedito misteriosamente, in una teca, a Stilo, dove nel 1812 il dignitario francese Aubin-Louis Millin fece di tutto per recuperarlo, assieme ad un dipinto di «celebre pennello» raffigurante il filosofo (forse una copia di quello attualmente custodito a Beauvais, presso il Museo Dipartimentale dell’Oise).
La “reliquia” del dito – secondo la tradizione orale e popolare stilese – fu custodita dagli aderenti ad alcune associazioni segrete (massoniche?), che diedero allo strano oggetto lo stesso significato conferitogli dai Templari (che, si dice, “adorassero” oltre ad un dito, una testa).
La prima leggenda, con quella de L’erba della sapienza, ripropone una tematica che è prettamente ermetica: quella della fabbricazione di una testa dotata di virtù speciali, che fu particolarmente avvertita nella seconda metà del Cinquecento, nel periodo in cui la diffusione delle dottrine di Paracelso prospettò la possibilità della generazione artificiale di esseri viventi.
Chiediamo a Claudio Stillitano cosa rappresenta per lui la testa barbuta e parlante presente nelle leggende da lui raccolte.
«Il simulacro – dice Stillitano – è da identificarsi con lo strano idolo venerato dai Templari, con quella sorta di testa di Giano barbuta, talvolta ritenuta parlante, forse in oro e argento. Tale figura enigmatica rappresentava, a parere dei Poveri Cavalieri di Cristo, il Redentore, “che fa fiorire gli alberi e maturare le messi”. Lo stesso potere viene attribuito al dio irlandese Dagda, che provvede al costante rinnovamento del cosmo e nel cui regno (l’aldilà) crescono tre alberi dai frutti perenni».
Ma il Baffimetto, Bafometto o Baphomet, come viene da lei chiamato, è esistito veramente o si tratta di pura invenzione?
«La storia del Bafometto è infinita. Sono molte le speculazioni e le ipotesi relative all’identità della testa misteriosa. Alcuni studiosi spiegano che il nome deriva dal termine arabo bahommerid, che significa moschea. Altri individuano, invece, nel termine un’altra parola araba, bahoumid, che significa vitello, con chiaro riferimento al culto del vitello d’oro dell’Antico Testamento. Altri sostengono ancora che Bafometto deriva dal greco e più precisamente dal termine baph (battesimo) e meteos (iniziazione o sapienza). C’è stato addirittura qualche scrittore che ha collegato il termine a Bapho, il porto cipriota dal quale per anni salparono i Templari con le loro navi. Altri studiosi hanno affermato che la parola ricorda il bufo, il rospo, uno degli animali più effigiati sugli stemmi dei Merovingi, un animale molto utilizzato in stregoneria (Campanella, nei primi anni della sua prigionia, si dedicò a forme di magia rischiose e persino demoniache). C’è addirittura chi ha scritto, leggendo la parola al contrario, che Baphomet è lo slogan dei signori del Tempio: Templum Omnium Hominum Pacis Abbas (Il tempio di tutti gli uomini è il padre della pace)».
Lei cosa pensa?
«Io credo che nei riti dei Poveri Cavalieri di Cristo, come nelle leggende da noi raccolte, la testa ha la stessa funzione, cioè quella dell’auspicio di una perfetta conoscenza e dell’annuncio di un percorso da seguire, pena il decadimento e lo smarrimento dei risultati conseguiti o da conseguire. In fondo, noi preferiamo considerare il termine Baphomet come una parola segreta decifrabile soltanto attraverso il codice Atbash. Questo codice deriva dal libro di Geremia, dalla Bibbia, dove si usa un semplicissimo codice monoalfabetico per cifrare la parola Babele: la prima lettera dell’alfabeto ebraico (Aleph) viene cifrata con l’ultima (Taw), la seconda (Beth) viene cifrata con la penultima (Shin) e cosi via. Da queste quattro lettere è derivato il nome Atbash (A con T, B con SH). Tale sistema alfabetico ci dice che la parola va tradotta con Sophia, la conoscenza, figura centrale per lo sviluppo dell’individuo e la sua rinascita spirituale, come centrale, in una delle leggende campanelliane, è la figura di Sofia che, assieme al Sole e al Senno, cerca di portare sulla strada della saggezza il ragazzo protagonista del racconto».
Questa interpretazione potrebbe essere accusata di troppa fantasia, visto che Campanella, nato nel 1568, quando i Templari erano già stati sciolti e perseguitati da alcuni secoli, non poteva aver conosciuto o praticato l’ideologia (eretica e dissacratoria) che era propria dei seguaci dell’Ordine del Tempio.
«In effetti Campanella non conobbe nessun templare, ma fu indirettamente influenzato (e indirizzò, a sua volta) dai seguaci di altri movimenti che si ricollegano alla setta segreta. Questi movimenti sono il Priorato di Sion e la Confraternita della Rosacroce, entrambi espressione diretta dei Templari, rimasti sempre nell’ombra e mai rivelatisi apertamente. Riguardo al primo movimento possiamo dire che il filosofo non condivise, almeno apertamente, gli intendimenti dell’Ordine di Sion, il cui scopo era (o è ancora) quello di tenere nascosti alcuni documenti e verità sulla “Chiesa di Giovanni” e sul cristianesimo. Anche se non va trascurato l’uso, in alcune sue opere, del cosiddetto “gesto di Giovanni”, il dito indice eretto e puntato, usato da Leonardo da Vinci (che appartenne, secondo alcuni documenti rinvenuti a Parigi negli anni Cinquanta del secolo scorso, al Priorato) in alcune sue opere, come l’ Ultima Cena e la Vergine delle rocce».
Lei però è convinto che il frate calabrese ispirò e sostenne la Confraternita della Rosacroce, il “Cenacolo di Tubinga”.
«Campanella ebbe un’enorme importanza sugli ideatori della Rosacroce (i cosiddetti Figli della Luce), che rimasero sempre sconosciuti e nell’ombra, anche se oggi possiamo identificarli in Johann Valentin Andreae, in Christoph Besold, Wilhelm Wense e Tobia Adami. Quest’ultimo, amico ed estimatore di Campanella, pubblicò in Germania alcune opere del filosofo e la Scelta d’alcune poesie filosofiche, che Adami dedicò, guarda caso, proprio a Wense, Besold e Andreae. Gli stessi manifesti rosacrociani (la Fama Fraternitatis e la Confessio Fraternitatis) mettono in evidenza alcune idee e convinzioni propugnate per lungo tempo da Tommaso Campanella. E’ il caso, dell’ ”amore” sviscerato per la natura, “per lo sacro santo sole, lampa del cielo, portatore delle cose a noi mortali”, natura considerata quasi come una divinità (fra Thommasso la chiamò “statua di Dio”), dell’ ansia e dell’impegno solerte e fattivo per il rinnovamento morale, politico e spirituale del genere umano e dell’esaltazione dei sapienti («Non il saper troppo, ma il poco senno degli assai ignoranti fa noi meschini e tutto il mondo tristo», scrive il frate ribelle). Le Nozze Chimiche, poi, attribuite esplicitamente a Johann Valentin Andreae (che pubblicò l’opera nel 1616), danno grande risalto al numero 7 e parlano di una Casa del Sole, con chiari riferimenti a La Città del Sole del filosofo stilese».
Vi è, quindi, un collegamento diretto con l’opera più nota del domenicano?
«Giovanni Valentino Andrea e gli altri rosacrociani furono sostenitori dell’alchimia spirituale, che non ha nulla a che vedere con la creazione dell’oro, che essi definivano “empio e maledetto”. Questa pratica culturale e filosofica, già intuita nel Rinascimento, caratterizzò, a nostro avviso, anche la vita e alcune opere di Campanella, che, come gli illuminati della Rosacroce, pensava (ma non lo dimostrò mai, per non aggravare la sua posizione già compromessa e sempre al vaglio dell’Inquisizione) che l’uomo, all’origine, fosse un essere impregnato di sostanza “divina”, che solo in seguito venne “intrappolato” in un corpo materiale e mortale, dove tuttavia poteva ancora riscontrarsi una scintilla del mondo primordiale. La meta dell’uomo, per i rosacrociani e per Campanella, doveva essere quella di recuperare tale dimensione, la strada che conduce alla “sacra estasi”, alla perfetta conoscenza, alla sapienza».
I passaggi da un girone all’altro ne La Città del Sole rappresentano dunque questo cammino, hanno un messaggio esoterico?
«E’ proprio cosi. Tutta l’opera è scritta secondo un linguaggio occulto e non ben manifesto. L’uso continuo di alcuni numeri ne è l’esempio. Il sette, usato spesso da Campanella ma anche dai Rosacroce, è un numero magico per eccellenza, in quanto il risultato della “composizione” di 3 (pluralità) e di 4 (totalità), numeri di importanza fondamentale nella tradizione esoterica. Cosi come il 4, che rappresenta un sistema chiuso, foriero di possibili sviluppi, come nell’alchimia, essendo la somma del 3, prima conclusione dello sviluppo dell’essere (che all’origine era uno), e dell’uno, inizio di ogni cosa».
Perché ha intitolato il suo libro Il segreto di Campanella?
«Perché il segreto si identifica con la vita enigmatica, misteriosa e indecifrabile del filosofo che, da giovane, aderì, tra l’altro, ad alcune accademie napoletane (le cosiddette “uova dell’angelo”), che erano delle vere e proprie associazioni segrete, messe fuori legge e condannate dalla cultura ufficiale e dal vicereame spagnolo».
Elia Fiorenza